Il racconto di Alessandro, il tifoso bloccato a Varsavia per 41 ore: “Quante ingiustizie subite in Polonia”
E se finora, sui principali siti e giornali italiani, di testimonianze dirette non v’è traccia, su un blog d’informazione Riccardo Cotumaccio – blogger e nostro redattore – scava a fondo sugli episodi di Varsavia, che hanno visto i tifosi della Lazio vittime di un’operazione di giustizia destinata a lasciarsi dietro mille polemiche. Qui il testo integrale del racconto di uno degli arrestati, Alessandro Mazzonna:
“Il giorno 28/11/2013, in collegamento con l’evento sportivo, durante il movimento di una partita di calcio nei locali di riunione, Legia Varsavia-Lazio, gli accusati disturbano la pace e l’ordine pubblico con urla e rumori, ostacolando altri pedoni dall’uso del marciapiede”.
Per questi “reati”, 197 tifosi della Lazio – a Varsavia in occasione del match d’Europa League col Legia – sono stati arrestati, chiusi in cella per più di due giorni ad acqua e pane, senza la possibilità di chiamare a casa, derisi, spesso umiliati, ma soprattutto abbandonati. Non solo dalla Lazio (che, come società, si è subito disinteressata al caso), ma anche dall’ambasciata italiana. A parlarne (in esclusiva al Contemporaneo) è Alessandro Mazzonna, romano, classe ’93, che da quell’inferno è tornato solo domenica, dopo 41 ore di blocco cautelare. Il suo racconto va per tappe, lo lascio parlare: la mia non è e non vuol essere un’intervista, vuol solo essere una testimonianza.
L’ARRESTO – E si parte da mercoledì 27: “già da quella sera – ci dice Alessandro – l’aria non era delle migliori. Alcuni tifosi del Legia ci hanno seguito per strada, altri – dopo aver scoperto gli alloggi di noi laziali – sono rimasti appostati, in attesa di una rissa, di uno scontro. Rimanere soli per strada o addirittura uscire la sera, per noi era un rischio. Non a caso ci sono stati subito 17 arresti, tutti a danno di tifosi laziali. Il vero caos, però, avverrà solo la sera successiva”. Giovedì mattina, dopo aver visto sfumare l’appuntamento all’Agricola Park, Alessandro e gli altri sostenitori laziali si spostano nei pressi del Palazzo della Cultura, all’Hard Rock Cafè. “Eravamo in 250, il corteo ovviamente non era autorizzato, e per questo diverse camionette della polizia ci hanno affiancato sin dall’inizio. Poi però ci hanno bloccato il percorso, e da lì sono nate le prime scintille, i primi piccoli tafferugli. Il corteo non è durato neanche 3 minuti: la prima fila si disperde, ci dividiamo, quindi decidiamo di andarcene tranquillamente, verso lo stadio. Giriamo qualche via, quando all’improvviso arriva la celere armata pronta a caricare. Abbiamo subito alzato le mani in segno di buone intenzioni, ma c’erano già 4 ragazzi ammanettati a terra. Noi – che eravamo 80 – siamo stati messi al muro e lasciati lì in piedi dalle 15.40 alle 18.30, per controllo documenti e perquisizioni. Ci avevano detto: ‘dopo i controlli andrete allo stadio’, ma dopo averci controllato da capo a piedi il commissario ordina di portarci tutti in commissariato”.
DAL COMMISSARIATO AL CARCERE – “Ci hanno divisi e caricati sulle camionette. Ci mancava l’aria, eravamo vestiti pesante. Mio fratello, che soffre di claustrofobia, ha dovuto pregare in ginocchio il poliziotto per mezz’ora affinché lo facesse uscire. La guida della macchina è stata terribile. Dopo dieci minuti arriviamo: ci mettono a terra, prendendoci in giro (‘bunga bunga, maccheroni, Balotelli’) e ci portano in una stanzetta. Altri ragazzi sono stati ammanettati con dei lacci, dato che erano finite le manette. Ci siamo ritrovati in 9 in una cella di un metro e 30 per due. Siamo stati lì dentro dalle 20.00 fino alle 4.00 di mattina. Ci hanno tolto tutto, rivendicavamo semplicemente una chiamata da fare ai nostri genitori. Per ore c’abbiamo provato, ma non ce l’hanno concessa. Nelle celle era un continuo via vai per alcol test, interrogatori, foto segnaletiche e impronte digitali. Poi è arrivata un’interprete italiana che ci ha letto i nostri diritti: bere, mangiare, e la celebre chiamata, possibile solo tramite ambasciata. Poi un nuovo trasferimento, stavolta in carcere, a 25 km da Varsavia. Lì ogni nostra richiesta veniva derisa, eravamo più volte messi a tacere, ci hanno denudati, trattati come bestie”.
“SENZA UNA TELEFONATA PER DUE GIORNI” – “Chiusi in una saletta d’attesa ci chiamavano uno alla volta, ogni 20 minuti. Temevo continuamente che ci menassero. Chiamato, mi hanno tolto i lacci delle scarpe e della felpa (che gli ho dovuto dare, lasciandomi a maniche corte) e su un foglio hanno scritto tutto ciò che mi avevano sequestrato. Ci hanno denudato come vermi, ci hanno fatto fare inutilmente flessioni inutili, ed eravamo già al terzo controllo in poche ore. È stato umiliante. Dopo averci fatto rivestire ci lasciano qualche foglio con le firme, ci danno un lenzuolo, una saponetta, e una fodera del cuscino. Arrivati nella zona del pre-carcere, in corridoio abbiamo visto le celle e avevamo il terrore di capitare in cella con qualche criminale. Io, fortunatamente, sono arrivato in una cella vuota, in attesa degli altri ragazzi. Qualcun altro è stato meno fortunato. Non sentivo mio padre da 15 ore. Chiedevamo solo di andare in bagno e un po’ d’acqua, di mangiare non se ne parlava, c’erano solo brodi immangiabili e budini decisamente ambigui. La cella aveva la porta blindata, c’era la possibilità di chiamare le guardie tramite campanello. Lì ho atteso il processo, che si sarebbe tenuto la mattina successiva”.
“MAI AVUTO ORE D’ARIA. L’ACQUA ERA IMBEVIBILE” – “A mezzogiorno, però, del processo non c’era alcuna traccia. Inizio a preoccuparmi, anche per un problema al rene che mi costringe a bere acqua molto spesso. L’acqua che mi portavano, chiaramente imbevibile, era contenuta in bicchieri di plastica morsi ai lati. Nel pomeriggio inizia un secondo interrogatorio con traduttrice italiana. Ci fanno leggere l’accusa rivolta nei nostri confronti. La respingo. Ho una tesi differente dalla loro, la ascoltano, faccio noto il problema al rene e mi danno una bottiglia d’acqua, che comunque ho diviso coi miei compagni di cella. Hanno iniziato a portarci solo acqua calda, di male in peggio. Non abbiamo mai avuto ore d’aria. Abbiamo visto l’esterno solo per pochi minuti. Il secondo giorno dentro al carcere hanno staccato il campanello. L’unico modo per chiamare la guardia era prendere a calci la porta, ma ci intimavano continuamente a star zitti. Su 197 fermi il venerdì mattina ne hanno liberati 60, ma ne sono rimasti 137 in gabbia per un disordine di due minuti. Mio fratello, in crisi perenne per claustrofobia, è stato minacciato di essere inviato in un ospedale psichiatrico da cui, una volta entrato, non sarebbe mai più uscito”.
IL PROCESSO, LA SENTENZA – “Ci prelevano dalla cella per portarci al processo, vengo perquisito per l’ennesima volta contro un muro: per farmi aprire meglio le gambe mi hanno preso a calci un piede. Non trovano nulla, subito dopo veniamo nuovamente ammanettati, mi hanno portato fuori alle 8.20 di mattina, sotto la pioggia gelida a maniche corte, senza ridarmi la felpa. Nella camionetta eravamo in 4, la guida è stata sempre fatta apposta per farci male il più possibile. Arriviamo in tribunale dopo mezz’ora di macchina in cui c’era il rischio di farsi veramente male. Scesi, ci portano in una saletta, e lì c’hanno fatto stare dentro e per divertirsi ci spegnevano la luce lasciandoci al buio per diversi minuti. Vengo chiamato per primo, mi portano in aula e lì – continuando a prendermi in giro (Alessandro “Maccheroni”) – entro al processo. Ero tra un poliziotto e la mia interprete: era un processo per direttissima. Alla prima pausa del processo mi ridanno tutto: felpe, lacci e via dicendo. Dopo due giorni ho potuto fare la prima chiamata, naturalmente a casa. Rientro in processo, un ragazzo diciottenne (terrorizzato) prova a fare la sua chiamata, ma un poliziotto gli strappa il telefono di mano. Arriva il momento della mia sentenza, verso le 10 di mattina: ‘per mancanza di prove il processo è rinviato alle 13.00 del 21 gennaio, hai diritto e non obbligo di venire e il processo si svolgerà in contumacia’. Lì sono uscito dal tribunale e per la prima volta sono stato libero”.
“NESSUN DELEGATO ITALIANO IN CARCERE” – “Per il biglietto di ritorno l’ambasciata ci ha lasciato da soli, facendoci pagare addirittura il biglietto. Non abbiamo visto nessun delegato italiano in carcere, al contrario di quanto l’ambasciata abbia fatto credere ai nostri genitori. Ho saputo di 6 inglesi che, dopo neanche un giorno di carcere – su insistenza dell’ambasciata inglese – erano già fuori. Persino la Lazio se n’è lavata le mani. Sono state 41 ore in mano loro, a pane e acqua, senza che nessuno alzasse un dito per noi. Ai polacchi arrestati è stato dato da mangiare, da bere: sono stati trattati col massimo comfort. Sono rientrato in Italia domenica, ma a Varsavia sono rimasti ancora 20 ragazzi. Sono accusati (tra gli altri reati) di aggressione a pubblico ufficiale, rischiando dai 2 ai 6 mesi. I ragazzi della curva Sud romanista hanno raccolto € 1000, mentre i tifosi – oltre che ad organizzare sit-in sotto la Farnesina (altra istituzione che ci ha abbandonato) – stanno raccogliendo fondi da tempo, organizzando persino un concerto, il 13 dicembre, di cui gli incassi verranno devoluti ai ragazzi di Varsavia. Infine, un grazie particolare va anche ai ragazzi del Wisla Cracovia. In mezzo a quei carcerati ci sono troppi innocenti. L’ambasciatore polacco, nel frattempo, continua a definirci ‘200 teppisti’. È una vergogna. L’atteggiamento della polizia polacca nei nostri confronti è stato caricato da episodi avvenuti di recente sempre a Varsavia ad opera di ultras del luogo, che più volte hanno messo a repentaglio la sicurezza civile. Con noi hanno voluto dare una prova di forza che è risultata a dir poco eccessiva. Questa è la differenza tra l’Italia e il resto d’Europa. L’Italia lascia soli i suoi cittadini, e il mondo ride di lei. Questo dovrebbe far riflettere”.