Una carriera in bianco e nero
Quando si tratta di personaggi di media importanza, ecco che i microfoni e le bocche dei tifosi si spengono e fanno finta di nulla, non preoccupandosi di esternare la più automatica delle considerazioni.
Tuttavia, chi è rimasto a lungo in chiaroscuro sapeva sin dall’inizio della possibilità del riscatto, che non si trattasse di utopia, e che bastasse ottenere solo la sacra concessione di un palcoscenico per mettere in mostra quello che si è manifestato in tanto tempo e che solo in poco si era dimenticato.
Vincenzo Iaquinta è stato per anni uno dei co-protagonisti della Serie A, uno di quei personaggi dello spettacolo il cui nome appariva sempre a ragione tra i titoli di coda. Eppure, è stato sufficiente cominciare a ricoprire per qualche mese il ruolo dell’impiegato anziano da licenziare per finire nel dimenticatoio così, senza che venisse offerto al diretto interessato il tempo di dimostrare che sulla tastiera, anche se non velocemente come una volta, le lettere le sapesse ancora digitare correttamente.
Non è necessario rischiare di scivolare in una prostrazione agiografica per capire che nella vita di certi professionisti di passaggio siano più frequenti gli alti che i bassi, che i momenti neri siano pochi rispetto a quelli che potremmo per analoga contrapposizione definire bianchi.
Da quando ha lasciato il Castel di Sangro, Iaquinta ha incontrato nella sua carriera proprio il bianco e il nero, i colori che l’avrebbero sempre accompagnato e contraddistinto come calciatore: 12 anni passati infatti tra Udinese, Juventus e Cesena, con una coppa iridata in bacheca che ha segnato inevitabilmente il picco più alto di una storia intera, un vanto di cui ben altri nomi gloriosi non possono comunque fregiarsi.
Nel calcio paradossale di oggi, in cui certe volte chi vi si trova dentro sembra capirne meno di chi sta fuori, è facile essere smentiti alla prima occasione, denudando la fragilità di quella che viene indicata come una scienza esatta e che invece è costituita da regole che si rinnovano nel tempo, al passo con la società e con le menti della gente. E’ probabilmente una questione dovuta al conformismo dilagante, che fa sì che, per essere sicuri di non sbagliare, ci si attesti tra le impressioni comuni seguendo appunto la massa, non tenendo conto delle particolarità di singole e specifiche situazioni. Un paio di mosse giuste, però, e chi è rimasto imbrigliato nella cabala può uscirne fuori pulito e raggiante, ricucendo un passato neanche troppo lontano con il presente cancellando il nero e riesaltando il bianco, ritrovandosi davanti un nuovo tempo che deve essere solo che riempito. A forza, riesumando le antiche sensazioni. E non è giusto così? Che sia l’autore dell’opera a decidere come e quando decretarne la fine, se ancora in possesso di tutte le sue facoltà? Un esempio è un esempio, e tutti sono liberi di seguirlo o di diventarlo. Anche un calciatore.
Onore a chi rimane sveglio dopo una notte insonne, quando tutti erano circondati dal nero e lui continuava a fissare il bianco.
lodandolo adesso non si fa altro che seguire la massa, dopo una partita celebrare un giocatore non è corretto, affermi la tesi autonegandola, compliments!