L’ineluttabilità di chiamarsi Milan
“L’ineluttabilità di chiamarsi Milan” non é un nuovo romanzo calcistico ma solo una sintesi delle situazione in cui versa la squadra di Marco Giampaolo. Si può credere in tante cose, nel Karma, nei freddi numeri, nel pessimismo leopardiano, nella regola del riscatto. Nel calcio, cosi come nella vita, sono i cicli a fare la storia. La domanda è: quanto può durare un ciclo? Se lo chiedono a Milano, sponda rossonera, una realtà che ha nel suo DNA il dovere di vincere, la necessità di esprimersi attraverso il bel gioco. Il Milan ha fatto di tutto per dimostrarsi ligio a queste regole ma non negli ultimi anni.
È lecito pensare a questi ultimi anni come a un altro inferno? Probabilmente il tifoso milanista risponderebbe di sì. Le colpe vanno sempre al mister di turno perché nel calcio, si sa, è il capo espiatorio più facile, più immediato. La realtà dei fatti racconta che il Milan non gioca in Champions League da 5 anni, che tutti gli obiettivi prefissati non sono mai stati centrati e che diversi giocatori di prospettiva hanno fallito. Nel merito di questa stagione si può già affermare, dopo 4 giornate, che gente come Biglia e Rodriguez possono partire dalla panchina in favore di Bennacer e Theo Hernández. Çalhanoğlu non è in grado di sostenere le trequarti da solo. Suso è l’enigma tattico più misterioso delle Serie A. Piątek ha bisogno di giocare più vicino alla porta, Leão é una gradita sorpresa. Rebić merita più chance.
Questo, al momento, è ciò che ha sentenziato il campo ed è su questo materiale che si dovrà lavorare per regalare ai tifosi milanisti l’ascolto della colonna sonora più suggestiva del calcio, quella della Champions League. Migliorare è l’unico dogma da seguire. La necessità di chiamarsi Milan può smettere dunque di essere tragica.