Quella volta che l’Italia rifiutò di partecipare alla Confederations Cup… ma quanto vale per noi?
Lo scenario calcistico di questi giorni è occupato prevalentemente da notizie relative alla prossima avventura della nostra Nazionale, l’ormai nota Confederations Cup. La competizione, alla quale prendono parte le vincitrici dei vari tornei continentali insieme alla trionfatrice degli ultimi Mondiali, oltre che i padroni di casa, sarà la principale attrazione “pallonara” del mese di giugno, e avrà l’intento di proiettare giocatori e tifosi verso Brasile 2014.
In principio, la manifestazione nasceva come un torneo amichevole ad inviti che si disputava in Arabia Saudita in onore del Re Fahd, sul trono dal 1982 al 2005, stesso anno in cui la Confederations passò dalla cadenza biennale a quella quadriennale. Solo dalla terza edizione in poi, ovvero dal ’97, la FIFA ne avrebbe riconosciuto l’ufficialità. Tuttavia, Blatter non riuscì a risolvere alcune incongruenze dovute alla logica del torneo: giocandosi oggi ogni 4 anni, ad esempio, l’Egitto e lo Zambia, campioni d’Africa rispettivamente nel 2010 e nel 2012, non possono avere accesso al torneo a vantaggio della Nigeria, vincitrice pochi mesi fa; una sorta di triangolare tra le tre Nazionali per decidere chi meritasse la partecipazione non sarebbe stata un’idea malvagia. Ciò che stona di più, però, è la possibilità di rifiutare tranquillamente di presenziare alla Confederations, anche se si è detentori di un titolo: ne sa qualcosa l’Italia, che diversi anni fa declinò l’invito alla competizione alla quale, fino ad allora, non aveva mai preso parte.
Era il 2003, la squadra di Trapattoni. La Confederations si giocava in Francia, terra dei campioni d’Europa in carica che quindi partecipavano in quanto organizzatori, liberando lo slot per il Vecchio Continente. Gli azzurri furono chiamati dalla FIFA in qualità di vice-campioni d’Europa, ma curiosamente decisero di non partire; così fecero anche i tedeschi interpellati in quanto vice-campioni del mondo, lasciando infine spazio alla Turchia, arrivata terza ai Mondiali del 2002.
Sono passati solo 10 anni, eppure l’atteggiamento della Federazione è cambiato nettamente. Oggi la Confederations Cup viene vista infatti non solo come un ottimo banco di prova per riunire la Nazionale, che come noto si ritrova poco, ma anche come un’opportunità extra per giocare con gli esperimenti e soprattutto un espediente per conoscere anzitempo i luoghi e l’atmosfera del Mondiale, anche se, paradossalmente, non è detto che una partecipante alla Confederations giochi anche la prossima Coppa del mondo.
In molti si disinteressano alla Confederations sapendo che non sia il Mondiale e reputandola chiaramente un’operazione commerciale, al pari del Mondiale per club. Quanto vale, allora, questa coppa? 4 anni fa, durante l’intervallo della finale tra USA e Brasile, con gli americani in vantaggio per 2-0, arrivò la telefonata di Barack Obama che voleva complimentarsi con la federazione a stelle e strisce per il risultato che si stava raggiungendo; non l’avesse mai fatto: il Brasile rimontò facilmente ed ottenne la vittoria, ma quella chiamata significava comunque che la Confederations valesse qualcosa per un popolo intero. Come dimenticare, poi, la festa che si tenne in Egitto in seguito allo storico successo sugli azzurri, nella seconda partita del girone…
Il verdetto è triste e forse a tratti ingiusto. Chi vince la Confederations Cup, il torneo della “crema mondiale a livello calcistico”, non è campione di niente. Che sia allora un semplice trofeo da mettere in bacheca, sulla falsa riga della Coppa Italia per i club, che conta solo quando la si vince? Ma soprattutto: come vivranno gli italiani questa Confederations? Lo Stivale non sembra pronto: sui balconi non c’è l’ombra di un tricolore, per le strade nessuno vi fa riferimento. Se un azzurro dovesse segnare il goal decisivo allo scadere dei tempi supplementari della finale, in Brasile sarebbe sicuramente festa. In Italia? Lo sapremmo solo vivendo quel momento.